Giro d’Italia 2018, gli uomini EF raccontano il loro ricordo del Giro: Woods si è sentito “nell’occhio del ciclone”
Non è andato come sperato il Giro d’Italia 2018 della EF-Drapac p/b Cannondale. Pu senza uomini di primo piano come Rigoberto Uran e Pierre Rolland, che hanno deciso di puntare sul Tour de France, il team statunitense poteva sperare nella vittoria di tappa con il velocista veneto Sacha Modolo e in un piazzamento in Top Ten con Michael Woods, già settimo alla scorsa Vuelta a España e quest’anno secondo alla Liegi- Bastogne – Liegi. I due capitani tuttavia, tranne qualche acuto, non sono mai realmente sembrati in condizione di lottare per i propri obiettivi dichiarati.
Sebbene non siano del tutto soddisfacenti i piazzamenti parziali ottenuti in alcune tappe, il direttore sportivo Fabrizio Guidi difende comunque i suoi ragazzi alla costante ricerca del successo parziale, sottolineando come “la vittoria non è arrivata, ma almeno ci abbiamo provato, lottando davvero sino alla fine”. “Ricorderò questo Giro come uno dei più duri GT – aggiunge Juan Manuel Garate – Non solo per il percorso, ma anche per i lunghi trasferimenti, che significano meno riposo per i corridori, e per la velocità. Il fatto che Yate avesse preso la maglia, puntando comunque alle tappe e agli abbuoni non ha dato possibilità alle fughe e il gruppo è sempre andato a tutta. Alla fine, tranne forse per 10-15 corridori, tutti erano stremati”.
A confermare le parole del suo diesse è Sacha Modolo, rimasto a secco malgrado abbia sempre provato ad inserirsi nella lotta per il successo di tappa, con il secondo posto di Eilat come miglior risultato: “Mi rimane la sensazione di un Giro strano quest’anno. SIamo andati a tutta ogni giorno e la fuga non è praticamente mai andata fino in fondo. Le salite erano davvero dure e non c’è mai stato un momento per riposarsi”.
Nel gioco dei ricordi che la formazione statunitense si propone, emblematica la risposta di Nathan Brown: “Mi porto dietro la stanchezza che sento attualmente, penso di non essere mai stato così stanco in tutta la mia vita”. Le dure salite di questa edizione, ma soprattutto le due tappe finali hanno davvero lasciato il segno per una “corsa senza tregua”, come sottolinea Hugh Carthy, mentre per Tom Van Aesbrock “è stato davvero troppo”, così come per Mitch Docker, “arrivato sino all’ultima settimana in forma, ma le ultime due tappe mi hanno quasi ucciso”.
Più colorato il ricordo di Mike Woods, che dipinge uno dei magnifici scenari di corsa, circondato dall’affetto e dal supporto dei tifosi: “Era dopo la 19ª tappa. Ero in cima alla salita, tossendo, come quando sei esausto di tutto. Con i sensi sovrastimolati perché vieni assalito da suoni, trombe… I finali in questo tipo di tappe sono incredibili. C’è così tanta gente… È una cacofonia di suoni ed emozioni. Ci avevano fatto sedere tutti in una tenda, Yates veniva abbracciato come se avesse perso qualcuno che amava, Ben King stava tossendo come se stesse per perdere un polmone e, all’improvviso, mi ritrovo in gondola (la funivia, ndr). Chiudiamo la porta ed è tutto così calmo… Ero accanto a Dayer Quintana, lo guardo e tutto quel che riesco a dire è ‘loco’ e lui mi risponde ‘sì’. A quel punto scendiamo in completo silenzio. È stato come essere nell’occhio del ciclone“.
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